CHINNICI: GIUDICE ANTIMAFIA

di Francesco Saverio Mongelli

«Terrore mafioso: Palermo come Beirut» titolava l’Unità il 30 luglio 1983, l’indomani della strage di via Pipitone Federico in cui morirono, a causa di un’autobomba carica di 75 chilogrammi di tritolo, il magistrato Rocco Chinnici, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi, portiere dello condominio dove abitava il giudice. Il paragone con la capitale libanese, per quindici anni immersa nella guerra civile, era calzante dacché nel solo capoluogo siciliano tra il 1979 e l’86 si registrarono più di mille morti causati dalla criminalità organizzata, un sistema che Chinnici combatté non soltanto con le armi della magistratura – ideò il pool antimafia, formato da Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello, che successivamente istruì il celebre Maxiprocesso – ma anche con l’uso della parola. Si spese a lungo per i giovani presidiando numerosi incontri nelle scuole. «Io credo nei giovani» disse in un’intervista. «Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare contro la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la
mafia». La lezione di Chinnici è pregna di attualità perché conserva messaggi come l’impegno civile, il valore della legalità, il rispetto reciproco, il ripudio per ogni forma di violenza e di prevaricazione, che oggi come ieri necessitano di essere intercettati e messi in pratica.