BRECCE

Uno spazio di confronto e riflessione per ragionare sul presente e fare memoria di certi fatti, certi libri e certi protagonisti che per una qualche ragione riteniamo utile segnalare ai nostri più giovani lettori

SIAMO STATI
TRADITI DAL DIGITALE
A CURA DI FRANCESCO SAVERIO MONGELLI

La nascita di Internet ha rivoluzionato il mondo stravolgendo le nostre abitudini. I social network hanno accelerato il processo di cambiamento culturale, soprattutto nella comunicazione e nelle relazioni. I pericoli del presente e le sfide per il futuro abbracciano argomenti quali la privacy, la dipendenza dallo schermo, l’iperconnessione, l’intelligenza artificiale, la realtà virtuale, la “vetrinizzazione”, termine coniato dal sociologo e docente Vanni Codeluppi, autore di un recente e utile pamphlet: I 7 tradimenti del digitale. In questo sistema, a tratti perverso, senza filtri e pieno di “cattivi insegnanti”, i più vulnerabili restano i giovani, anestetizzati dai contenuti che fruiscono quotidianamente e talvolta incapaci di costruire un pensiero critico individuale. La famiglia e la scuola hanno una grossa responsabilità nel fornire strumenti di lettura agli adolescenti per contrastare le logiche del “lato oscuro del social media”. Uno strumento utile di comprensione è Nella tela del ragno, un manuale di autodifesa digitale scritto da  Emanuele Florindi e Roberta Bruzzone che, sviscerando le vulnerabilità alle quali si è esposti, mette in luce tantissimi “rischi virtuali” come il cyberbullismo, la pornografia, la pedofilia, il sexting, lo stalking. Non esiste una ricetta, una soluzione universale. Un buon punto d’inizio resta, come sempre, la conoscenza.

CARCERE AI... MAGISTRATI: LA PROPOSTA SCIASCIA-TORTORA
A CURA DI LUIGI BRAMATO

L’algoritmo di Google mi propone questa notizia: “Dopo aver vinto il concorso, i magistrati dovrebbero trascorrere in carcere almeno 15 giorni fra i comuni detenuti e leggere la letteratura dedicata al ruolo della Giustizia”. Non credo ai miei occhi. Accendo il pc, avvio la ricerca. Scorro i risultati e tra questi apro quello del "Sole 24 Ore". Eccolo, l’ho trovato. Tutto vero, nessuna fake news. L’articolo risale allo scorso 14 maggio. Peccato: non proprio freschissimo. Però ancora attuale. Leggo con attenzione: è una proposta di legge che l’Associazione Amici di Leonardo Sciascia ha presentato al Parlamento italiano. In attesa di essere discussa e, nella migliore (quanto remota) delle ipotesi, approvata. A proposito di Sciascia: dove avevo letto quel suo vecchio articolo sui magistrati? Ma sì, eccolo: è del dicembre 1986 e si intitola “La dolorosa necessità del giudicare”. Dice a un certo punto lo scrittore: “Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come a una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio”. C’è altro da aggiungere?


Consiglio di lettura: Cavallaro-Conti (a cura di), Diritto, verità, giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, Cacucci, Bari 2021.

ALAIN DELON
SALE IN CATTEDRA

DI FRANCESCO SAVERIO MONGELLI

«Io sono qui per spiegarvi soltanto se un verso del Petrarca è bello e presumo di saperlo fare. Tutto il resto mi è strano, mi annoia. Tanto vale che ve lo dica subito. Per me neri o rossi, siete tutti uguali. I neri sono più cretini». Si presenta così ai suoi studenti Daniele Dominici, ex venditore di libri a rate, supplente per pochi mesi al liceo classico di Rimini ne La prima notte di quiete, egregiamente diretto da Valerio Zurlini nel 1972. Il dolcevita verde con su un maglione color panna, il cappotto di cammello, l’anello al mignolo, la sigaretta, gli occhi azzurri e i capelli al vento. «Ho un mio punto di vista sull’insegnamento» continua, «non imporlo a nessuno. Nel senso che se qualcuno vuole studiare, io sono qua. Gli altri facciano come vogliono. Venire, non venire. Leggere, scrivere. Giocare alla battaglia navale. Insomma, basta che non disturbino». Un personaggio unico, quello interpretato da Alain Delon, pieno di ombre e turbamenti, che si innamorerà di una sua alunna - la bellissima Sonia Petrovna, raccolta in un esistenziale dolcevita nero - restandone sorpreso grazie alla sua rarità: sarà l’unica che, il primo giorno di lezione, svolgerà il tema su Manzoni rispetto a quello sulla sua vita, anch’essa piene di ombre e turbamenti.

DIECI COSE CHE HO IMPARATO
A CURA DI LUIGI BRAMATO

Sulla consolle dei comandi del nostro paese non si contano più le spie d’allarme che si sono accese e che lampeggiano furiosamente. In Italia non nascono più bambini. Quei pochi cervelli che ci sono scappano all’estero. Il sistema scolastico fa acqua da tutte le parti. L’ambiente agonizza. Il lavoro si automatizza. E l’Italia che fa? Nulla. Tutto è fermo, tutto è statico. Immobile. Agiamo e pensiamo nel breve, anzi brevissimo termine (la “brevimiranza”). Si procede a tutta velocità senza visione e senza freni verso un futuro che appare lontano, ma che lontano non è. Senza investimenti nella ricerca e nell’innovazione andremo a schiantarci, questo è certo. E a dirlo non sono gli stregoni o gli uccelli di mal augurio. No, lo dicono i numeri. Basta saperli leggere. E interpretare. Piero Angela lo ha fatto poco prima di morire, consegnando ai lettori un volumetto prezioso e chiarissimo, Dieci cose che ho imparato, che pone interrogativi e suggerisce soluzioni, semplici ma illuminanti, per far fronte alle opportunità e alle insidie della modernità.  

ROCCO CHINNICI, GIUDICE IN TERRA
DI MAFIA

A CURA DI FRANCESCO
SAVERIO MONGELLI

«Terrore mafioso: Palermo come Beirut» titolava l’Unità il 30 luglio 1983, l’indomani della strage di via Pipitone Federico in cui morirono, a causa di un’autobomba carica di 75 chilogrammi di tritolo, il magistrato Rocco Chinnici, il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi, portiere dello condominio dove abitava il giudice. Il paragone con la capitale libanese, per quindici anni immersa nella guerra civile, era calzante dacché nel solo capoluogo siciliano tra il 1979 e l’86 si registrarono più di mille morti causati dalla criminalità organizzata, un sistema che Chinnici combatté non soltanto con le armi della magistratura – ideò il pool antimafia, formato da Falcone, Borsellino, Guarnotta e Di Lello, che successivamente istruì il celebre Maxiprocesso – ma anche con l’uso della parola. Si spese a lungo per i giovani presidiando numerosi incontri nelle scuole. «Io credo nei giovani» disse in un’intervista. «Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza. Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare contro la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia». La lezione di Chinnici è pregna di attualità perché conserva messaggi come l’impegno civile, il valore della legalità, il rispetto reciproco, il ripudio per ogni forma di violenza e di prevaricazione, che oggi come ieri necessitano di essere intercettati e messi in pratica. 

Consiglio di lettura: Rocco Chinnici. L’illegalità protetta, a cura della Fondazione Rocco Chinnici, Glifo Edizioni, 1990.

IL GRANDE NORD DI PAOLO COGNETTI
DI LUIGI BRAMATO

C’è un uomo che vive sulle Alpi. Tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, in una baita a 1800 metri di altezza. Ha 46 anni, si chiama Paolo Cognetti ed è uno scrittore. Un grande scrittore, come non ne nascevano da tempo. Giù nella valle è il titolo del suo ultimo libro: lo stile è nitido e incisivo – “frasi brevi” ripeteva Hemingway – e autentica è la materia dei suoi racconti. Leggendoli, si ha come l’impressione di camminare tra larici e abeti, protetti dalle vette del Monte Rosa e ristorati dal fragore della legna bruciata. Mentre fuori, mischiati a quelle dei cani lupo, gli uomini vivono le loro piccole e grandi storie. Fatte di nostalgie, ferite, solitudini. E amore. Amore per gli spazi sconfinati e silenziosi delle montagne. Dove fare pace, prima di tutto con se stessi. Seguendo le orme dei maestri nordamericani, Cognetti ha trovato, dopo tanto girovagare, il “suo” Grande Nord. E ne ha fatto materia letteraria. Una materia ruvida e bellissima, costellata di foreste e vette innevate, cieli stellati, fiumi d’acqua dolce, empori e uffici postali, sigarette, whiskey, treni e polvere del deserto. Lì, come nel Montana di Norman Maclean, dove alla fine “tutte le cose si fondono in una sola, e un fiume le attraversa”.

BOLOGNA: UNA STRAGE DA NON DIMENTICARE
A CURA DI FRANCESCO SAVERIO MONGELLI

Il 2 agosto 1980 alle 10:25 scoppiò una bomba alla stazione di Bologna. I morti furono 85, oltre 200 i feriti. L’atto terroristico – il più grave in termini di vittime – chiude simbolicamente la stagione degli anni di piombo, iniziata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano, durante i quali la stabilità democratica del Paese fu messa in pericolo da una lunga e violenta serie di attentati, scontri di piazza e tentati colpi di stato. Per la strage bolognese i tribunali hanno addossato ogni responsabilità a un gruppo di neofascisti. Il sospetto, però, è che i mandanti siano rimasti nell’ombra. Come nell’ombra sono rimaste certe collusioni tra esecutori materiali e ambienti malati della massoneria e degli apparati dello stato. All’indomani dell’attentato, la stampa italiana (e non solo) traboccava di ipotesi, scoop e titoloni: resta iconica la copertina de “L’Espresso” (numero speciale del 17 agosto) firmata dal pittore Renato Guttuso e intitolata “Di strage in strage”. Nell’ambito del primo anniversario, degno di nota fu il gesto di Carmelo Bene che il 31 luglio del 1981 lesse alcuni versi di Dante dalla Torre degli Asinelli in una Bologna, ieri come oggi, per dirla con Francesco Guccini, «capace d’amore, capace di morte e che sa stare in piedi, per quanto colpita».

MONTANELLI? DIVULGATORE
DI STORIA

A CURA DI LUIGI BRAMATO

Indro Montanelli? Se non avesse fatto il giornalista, sarebbe diventato un insegnante. Di storia, naturalmente: lui sì che la conosceva e sapeva come raccontarla. Senza il rigore dell’accademico (che non era), ma con lo stile e l’immaginazione del grande scrittore (che invece era, eccome se lo era). Dove altro se non nei suoi scritti – così chiari e accessibili perfino a uno studente scavezzacollo come me – avrei conosciuto le polis greche, la gloria di Roma, il regno di Teodorico e l’impero di Carlo Magno? Chi altri mi avrebbe parlato con egual passione dei viaggi di Colombo, della riforma di Lutero, dell’abiura di Galilei o dell’illuminismo di Beccaria? E da chi altri, infine, avrei imparato a conoscere e riconoscere il carattere degli italiani (di noi italiani), con i loro umori e i loro malumori? Anche su questo Sciascia aveva ragione: ogni studente deve avere la libertà di scegliersi i propri insegnanti anche (e direi soprattutto) fuori dalla scuola. Io la mia scelta l’ho fatta. E voi?

IN RICORDO DI
PAOLO BORSELLINO

A CURA DELLA REDAZIONE

A trentadue anni dal suo assassinio, pubblichiamo per intero l'ultimo discorso pubblico pronunciato da Paolo Borsellino il 25 Giugno del 1992 presso la Biblioteca Comunale di Palermo:

«Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone.  Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone (...)

LE STRAGI CHE SCONVOLSERO L'ITALIA
NEL RACCONTO DI BIANCONI

DI LUIGI BRAMATO

Sarà mai possibile far luce sulle stragi che hanno dilaniato l’Italia negli anni del terrorismo? Se lo chiede Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera in un racconto puntuale e fitto di indizi, dal quale emergono novità giudiziarie, complicità indicibili e interrogativi mai del tutto chiariti: c’erano anche le Brigate Rosse in via Fani? perché è saltata in aria la stazione di Bologna? e piazza Fontana? è stato un commando di Lotta Continua a uccidere il commissario Calabresi? e perché l’anarchico Pinelli è “stato suicidato”? Sono trascorsi da allora cinquanta anni: quasi tutti i protagonisti sono deceduti, il clima politico e istituzionale è mutato, gli assetti internazionali pure, e i documenti desegretati che avrebbero dovuto rivelare chissà quali misteri non lo hanno fatto. È vero: in questo lasso di tempo è stato scritto e detto tanto, anche troppo forse, ma l’impressione è che proprio tutta la verità – nonostante i processi e le sentenze passate in giudicato – continuerà a rimanere “nell’ombra”. A meno di non cedere alla dietrologia e a quelle teorie del complotto che tutto alterano, tutto distorcono. E allora? Allora non resta che aspettare con fiducia che la Giustizia faccia il suo corso (anche dopo 50 anni?) e offrire alle giovani generazioni - al di là degli speciosi riscontri processuali - una lettura complessiva di quegli anni: e cioè che a partire da un determinato momento, il livello dello scontro politico divenne incandescente a tal punto da precipitare l’Italia – nel clima asfissiante della Guerra Fredda – in una spirale di inaudita ferocia lastricata di bombe, sequestri, guerriglia urbana e omicidi eccellenti compiuti da gruppi e bande armate terroristiche di matrice rivoluzionaria e neofascista molte delle quali eterodirette (quando non addirittura istruite e sovvenzionate) da apparati dello stato che ne hanno condizionato le strategie di morte. Per scongiurare pericolose derive o generarne di terribili.